Il Festival di Sanremo forse più ‘artigianale’ degli ultimi anni porta a casa la seconda serata, tutta protesa al grande evento della terza, confermando l’impressione dell’esordio. Gianni Morandi non è favellatore magico come Paolo Bonolis, né un uomo di polso scenico come Baudo, cerca di fare autoironia sul ritmo del collage. Sul palco dell’Ariston mette a disposizione la sua bontà di padre, la sua umiltà di uomo per nulla rock e molto lento, per dirla alla Celentano. La sua conduzione trasuda generosità verso il pubblico, la sua voce è più un consiglio paterno per i giovanotti Luca e Paolo che un lancio allo show. Le grandi mani sudate del presentatore che attende il verdetto o che fa cerchio con il suo team sono forse l’immagine più emblematica di questa atmosfera di estrema semplicità, di uno spettacolo che non ha paura di rivelare le crepe di congiunzione tra le varie parti.
Le due vallette si dividono un po’ i compitini che lo spettacolo minimale affida loro. Belen veste meglio i panni della soubrette ma si spegne nei pochi dialoghi che la vedono protagonista, Elisabetta invece aggredisce i discorsi con più tranquillità, sorride più spontaneamente, cerca qualche guizzo estemporaneo che possa in qualche modo darle quel tocco di effervescenza che non guasta. Le Iene, Bizzarri e Kessisoglou, stanno trovando l’equilibrio che la cornice istituzionale impone: il contrattacco di par condicio è fatto con intelligenza ma non ha lo stesso effetto dirompente di Ti sputtanerò, che in poche ore ha praticamente fatto il giro dei media con un numero di visualizzazioni e condivisioni impressionante.
Il buon Gianni il suo gran bel lavoro l’ha fatto in fase di selezione, dimostrando così la sua vocazione più di ascoltatore che di showman. Al secondo giudizio le canzoni confermano una grandissima forza, nonostante molte imperfezioni abbastanza generalizzate nell’esecuzione. Ascoltate in radio molte obliterano il vizio di forma dell’emozione e rivelano l’immenso potenziale. Gran parte della critica è concorde sul maggior respiro del repertorio di quest’anno. Gran parte delle canzoni hanno il loro bel perché, una chiave di lettura più sofisticata del solito. Franco Battiato che entra in punta di piedi, alieno radicalchic dell’Ariston, rende bene l’alchimia quasi impalpabile di quest’eleganza. Piaccia o no questo rifiuto della solennità, quest‘aurea mediocritas, un punto sicuramente a favore è che le esibizioni sono ben concentrate, lasciando le variazioni sul tema essenzialmente al fuori gara.
Ospiti- L’intervista con Andy Garcia certo non passerà alla storia come pagina memorabile della storia della televisione. Anche in questo caso Morandi porta con sé i limiti di cantante prestato a presentatore di evento. Il racconto che riesce meglio a Gianni è quello della sua vita, delle sue piccole conquiste, del suo canzoniere. Se consideriamo però come aveva steccato totalmente Panariello non possiamo che alzare le spalle e sospendere il giudizio. Neanche la Doolittle scuote più di tanto l’attenzione rispetto al nucleo che rimane la gara delle canzoni.
Giovani- Superano il turno Raphael Gualazzi e Serena Abrami. Anche in questo caso, al di là di ogni retorica, una buonissima qualità che rende difficile soppesare le piccole sfumature tra i quattro talenti in competizione. Gualazzi forse alla lunga ha quella marcia in più di un arrangiamento molto chic, e un profilo artistico non troppo comune tra le giovani proposte. Di grande originalità però anche Anansi e Gabriella Ferrone: si è deciso bene di sposare più la linea giovani Dolcenera-Arisa che quella Tatangelo-Brando.
‘Avanguardia’ demoscopica: le eliminazioni- Sorprende in positivo la reazione della giuria in platea alle canzoni. Che il gusto del pubblico stia cambiando sembra innegabile. Qualche anno fa sarebbe stato impensabile vedere come ‘primi qualificati’ alla terza serata il brano di grande delicatezza ed eleganza dei La Crus e l’esperimento veramente d’avanguardia di Davide Van De Sfroos. Una maggiore abitudine all’ascolto, una diversa ricerca del bello e del nuovo, forse aiutate dalla democratizzazione dell’arte musicale chiamata talent show? Il dato parla chiaro: jazz and blues, swing e rock sconfiggono nettamente il neomelodico e la rima baciata. La particolarissima filastrocca di Tricarico affonda Al Bano e la prostituzione, usata come specchietto per le allodole per il solito brano ampolloso. Dispiace per Patty Pravo, c’è chi vede nel suo brano un’ideale prosecuzione di E dimmi che non vuoi morire, ma il live dà sempre qualche problema alla Strambelli. L’augurio è di rivederla almeno in semifinale con la Oxa.
La gara ha ancora senso?- Stando alle reazioni epidermiche questo Sanremo sembra essere proiettato verso il professor Vecchioni. Il fascino del sognatore che canta al pubblico come se spiegasse in una classe letteratura alla lavagna, in una fase di così grande nostalgia per i punti di riferimento morali, strega il pubblico. L’ovazione ha pochi eguali nella storia della kermesse. Il gradimento sembra così fortemente sbilanciato verso Chiamami ancora amore che i presentatori sul palco contengono quasi con imbarazzo lo stupore per una tale acclamazione. Per un testo di disincanto da intellettuale è un successo inaspettato: è come se si stesse caricando simbolicamente della sofferenza della presente instabilità. Se vincesse sarebbe uno bello schiaffo morale a chi demonizza a prescindere l’Ariston.
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1. XxGiOsInOxX ha scritto:
17 febbraio 2011 alle 11:24