É calato il sipario su Cavalli di Battaglia, one man show grazie al quale è tornato sul piccolo schermo Gigi Proietti, un attore ancora in ottima forma e un uomo che di certo non si è stancato di reggere il cuore con la mano in segno d’offerta: ha oramai un’autorevolezza affabile, un’innata simpatia, i suoi movimenti sono più compìti, maturi ma non meno affascinanti di una volta, e il pubblico rimane al centro delle sue preoccupazioni, il perno e il complice delle sue evoluzioni (in tal senso il personaggio di Pietro Ammicca è esemplare). Con Cavalli di Battaglia, Gigi Proietti, dopo più di cinquant’anni di carriera, ha in qualche modo voluto fare un dono a chi lo ha sempre seguito e a chi, fra i più giovani o i più distratti, ha avuto voglia di scoprirlo.
E se proprio volessimo guardare in bocca a questo “caval donato”, alla ricerca di almeno un difetto, allora sottolineeremmo che, con il passare delle puntate, il ritmo è andato rallentando, la scrittura ha slabbrato un po’ le proprie maglie ed è aumentata quella sensazione che (soprattutto dopo le 23) lo spettacolo fosse un insieme di segmenti apprezzabili ma appiccicati uno dopo l’altro con la mano sinistra. Fortunatamente a tenere insieme i pezzi ci ha pensato Proietti, il quale — per rimanere in tema equino — è davvero un purosangue («in riferimento a persone, indica il possesso di qualità e doti congenite e quindi effettive, reali, e insieme altamente distintive», recita la Treccani). Che piacere sentirlo cantare gli stornelli romani, interpretare alla francese Nun me rompe er ca’, raccontare delle barzellette (una delle sue specialità) e degli aneddoti (con tenerezza più che con malinconia), o ritrovarlo nelle parodie dei grandi classici del teatro e addirittura nei panni del Genio di Aladdin al quale prestò la voce.
E ci siamo sforzati per trovare un difetto perché non lo è, per la verità, nemmeno il fatto che Cavalli di Battaglia come trasmissione televisiva sia troppo teatrale: lo spettacolo di Proietti, in tournée da tempo, è semplicemente un ibrido ed è chiaro sin dalla sigla dove s’invita il telespettatore a percorrere il colonnato d’ingresso di un teatro (il Verdi di Montecatini) senza farlo entrare in sala bensì in un piccolo teleschermo. Lo studio è televisivo al massimo, con un video-wall immenso, mentre alcune parentesi sono inevitabilmente di puro teatro, con tanto di fondali calati dall’alto. Fra i cavalli di battaglia custoditi nel baule di scena dall’istrione romano pare esserci qualsiasi cosa, tranne la vergogna di passare dall’alto al basso, dal sacro al profano, dalla riflessione alla risata (quest’ultima è, comunque e per fortuna, largamente maggioritaria, come sottolinea bene anche la sigla d’apertura e chiusura).
Il sofferentissimo sabato sera di Rai 1 aveva proprio bisogno di un appuntamento come Cavalli di Battaglia e di Gigi Proietti, un purosangue sul quale era giusto (e non certo da incoscienti) puntare.
1. Nino ha scritto:
6 febbraio 2017 alle 08:37