Ci si può sempre dire che i numeri di The Voice parlano chiaro. E noi, che un po’ ce ne intendiamo, proprio dai numeri vogliamo partire. Ecco allora che, anche solo ad uno sguardo veloce, ciò che salta immediatamente all’occhio è il preoccupante dato calante dei live show. Bisogna prendere atto che, nonostante la concorrenza decisamente meno spietata rispetto alle due fasi di casting registrati, la fase clou del nuovo talent di Rai2 ha subìto una curiosa battuta d’arresto, in controtendenza rispetto a quanto ci si sarebbe naturalmente aspettato.
La questione, però, trova presto risposta: The Voice è un format strutturato male, che da noi si è pure dovuto subìre il classico adattamento “all’italiana” per coprire prima e seconda serata e l’intero periodo di garanzia. Ma se questo fosse l’unico problema, a Rai2 sarebbero già a cavallo. Preoccupa invece che il talent soffra della ripetitività del meccanismo, che ha giovato senza dubbio durante le Blind Auditions, ma ha danneggiato non poco nella fase più importante, quella dei Live Show, in cui ci hanno semplicemente catapultato a (ri)seguire in loop quanto già visto nelle fasi precedenti, vestito a festa con tanto di giacca e cravatta.
Ecco che viene a galla quella perenne sensazione di assistere ad un casting senza fine, non essendoci alcuna sfida tra i troppi concorrenti dello stesso team, tagliati fuori a manetta ad ogni puntata, né men che meno tra gli stessi team, ritrovatisi uno contro l’altro solo in occasione della finalissima. E così pure quell’interessante alchimia nata tra i coach nelle audizioni al buio è stata buttata all’orticaria: se, oltre alla scelta – magari apprezzabile ma spesso inutilmente forzata – di eliminare qualsivoglia possibilità di esprimere una critica, non viene fornita ai coach la facoltà di cambiare le carte in tavola (sin dalle Battle ognuno guarda il suo orticello) è inevitabile che il programma perda vertiginosamente interesse.
Oltre al fatto non proprio trascurabile che The Voice non ha potuto contare curiosamente su alcun daytime, come nei talent concorrenti, impedendo agli spettatori non tanto di affezionarsi, quanto invece di conoscere i protagonisti, anche solo da un punto di vista prettamente artistico. Dopotutto è scontato: alcuni emergono all’istante, altri invece potrebbero aver bisogno di tempo per esprimere il loro talento.
Non solo il format però, anche il contorno ci ha lasciato in alcuni casi di stucco. Come il tanto sbandierato lato social, ridotto – nonostante le belle premesse – all’osso (e al sito internet), con una Carolina Di Domenico relegata a comprimere in qualche manciata di interventi i commenti del pubblico da casa. E se una seconda serata post-puntata avrebbe inutilmente attirato le critiche degli avvoltoi, si poteva pur sempre pensare a soluzioni diverse ma ugualmente interessanti, peraltro già testate in passato con altri talent dalla stessa Rai. E poi la totale mancanza dei “servizi premium” (per dirla alla Scrosati): niente televoto gratuito multipiattaforma, ma manco le app per smartphone e tablet. Sveglia, non siam mica nel 2000.
Certo, a tutto c’è un rimedio, in futuro. D’altronde gli ascolti di questa prima edizione tutto si possono definire fuorché negativi ma forse insufficienti per fare il grande salto. Troppe ancore le lacune, troppi i dettagli da rivedere nel meccanismo: la strada per una conferma è dietro l’angolo, quella della promozione invece si fa sempre più lontana.
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1. Tiziana ha scritto:
31 maggio 2013 alle 10:41