Revisionismo storico, appiattimento dei personaggi, sviste nella ricostruzione degli ambienti. Queste sono solo alcune delle critiche piovute su Gli Anni Spezzati – Il Commissario, prima ‘atto’ della trilogia incentrata sugli anni 70, diretta da Graziano Diana, in onda su Rai 1. Come buona parte delle fiction dal taglio biografico, anche la miniserie con protagonista Emilio Solfrizzi nei panni del Commissario Calabresi si è dovuta scontrare con il ricordo di chi quel periodo l’ha vissuto in prima linea, di chi quegli anni li ha studiati e analizzati a fondo, e di chi ha conosciuto di persona Luigi Calabresi. Particolarmente critico, Mauro Decortes, portavoce del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa che, come riportato da La Repubblica, ha dichiarato:
“Si difenderanno dicendo che una fiction è un’opera di fantasia, ma allora non dovevano chiamare il commissario col nome di Calabresi e non dovevano ambientarla a Milano ma in una città di fantasia. Hanno fatto un’operazione orribile che ci ha ferito. Il bar degli anarchici a Milano non è mai esistito. Ma l’operazione è sottile: lo spettatore ha l’impressione di entrare in un bar di malviventi. Se alla fine si fa capire che non hanno messo la bomba, restano lo stesso delinquenti e drogati”.
Altrettanto critico Guido Crainz, docente di Storia contemporanea nella Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università di Teramo che, sempre sulle pagine de La Repubblica, boccia la serie:
“Nel momento in cui scompare il clima dell’autunno caldo, quello che accade dopo resta incomprensibile. Questo per me è l’aspetto centrale. Non se ne fa cenno e risulta incomprensibile, nella seconda puntata, l’emergere della pista nera. All’inizio del racconto non si spiega mai che la stragrande parte degli atti violenti sono fascisti: penso alle bombe dell’aprile e dell’agosto ‘69. La responsabilità principale è far scomparire le offensive di quei mesi, ignorare la pista nera, che era battibile da subito”.
Pur criticando gli autori, rei di non essere riusciti a restituire l’immagine autentica dell’Italia di quegli anni, Crainz salva alcuni punti della fiction.
“[…] Ho trovato che altri aspetti, invece, sono stati curati, senza omissioni: come il fermo protratto di Pinelli. Alcuni punti chiave ci sono, e sono spiegati allo spettatore. Per esempio mentre Pinelli scompare, Calabresi dice: È la mia stanza, quelli sono i miei uomini”.
Critiche, ma allo stesso tempo meriti per aver rispettato la figura storica del Commissario Calabresi, sono arrivate da Mario Calabresi, figlio di Luigi, che sulle pagine del quotidiano La Stampa da lui diretto, ha dichiarato:
“Devo dire che, per quanto la complessità di quegli anni sia stata semplificata fino all’eccesso, la verità storica sulla figura di mio padre è stata rispettata. Non riesco a darne un giudizio distaccato perché per me, come per mia madre e i miei fratelli, è stata emozionante ma molto faticosa. Questo è il motivo per cui non abbiamo partecipato al progetto e non l’abbiamo voluta vedere prima. Perché le fiction per loro natura semplificano tutto, tendono a stereotipare personaggi e situazioni e non saranno mai somiglianti ai ricordi che ognuno si porta dentro. Devo dire che, per quanto la complessità di quegli anni sia stata semplificata fino all’eccesso, la verità storica sulla figura di mio padre è stata rispettata.”
Il Giornalista pone inoltre l’attenzione sulla scelta di affidare il ruolo di suo padre, all’epoca dei fatti appena trentaduenne, al cinquantenne Emilio Solfrizzi.
“C’è però un dettaglio, non insignificante, che è stato stravolto: Luigi Calabresi nei giorni della strage di Piazza Fontana e della morte di Giuseppe Pinelli aveva solamente 32 anni. Era uno dei funzionari in assoluto più giovani della Questura, non uno dei vecchi esperti che spiegavano come va il mondo ai nuovi arrivati. Farlo interpretare da un attore cinquantenne cambia il senso della storia. Mio padre, proprio per la sua giovane età, era il più interessato a capire cosa stava succedendo nei movimenti di protesta, formati da persone che erano spesso suoi coetanei e per questo motivo gli era più facile – rispetto ad altri funzionari di lungo corso della Polizia – essere accettato per uno scambio di idee in casa di Feltrinelli o all’interno di una marcia per la pace (come raccontò Marco Pannella). Nelle scene finali lo si vede quasi rassegnato per un destino che sentiva scritto, un destino che sembrava mettere fine a una lunga vita. Invece nella realtà era consapevole del pericolo e spaventato, ma non rassegnato e non intenzionato a fuggire, ma soprattutto era un giovane padre che venne ucciso a soli 34 anni.”
Lo stesso Solfrizzi è intervenuto, sulle pagine de La Repubblica, in difesa della fiction, rigettando le accuse di revisionismo e giustificando alcune inesattezze presenti nella miniserie.
“Da parte mia è stato un tentativo onesto, mi è costato notti insonni e fatica. Ecco, spiace essere accusato di revisionismo…Col terrore di non fare e non dire c’è solo la paralisi. Abbiamo provato a raccontare le contraddizioni, la stagione dell’odio. Poi se qualcuno mi dice: “Non ci siete riusciti”, rispondo: “Parliamone”. Accetto le critiche. Non ho certezze”.
Per quanto riguarda gli errori:
“Mi sono lamentato che invece della 500 ci fosse la 600. È facile parlare da fuori, sul set tutto si fa velocemente. Questo è un tentativo non disonesto laddove ci sono errori non c’è malafede. Alcune cose mi sono piaciute, altre no. Metteremo Gli anni spezzati con altri tentativi che spero verranno. Ma se tutto si risolve in un’aggressione, non mi piace.”
Lunedì 13 e martedì 14 il ciclo Gli Anni Spezzati proseguirà con l’episodio Il Giudice, nel quale Alessandro Preziosi vestirà i panni di Mario Sossi, il sostituto procuratore rapito a Genova il 18 aprile 1974 dalle neonate Brigate Rosse. Riuscirà il secondo ‘atto’ a scampare a critiche e polemiche?
1. Giuseppe ha scritto:
12 gennaio 2014 alle 19:13