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C’era Una Volta Studio 1: a vincere è il ricordo
di Stefania Stefanelli
14/02/2017 - 12:00

Se c’è una cosa che la Rai sa fare bene è pescare tra i ricordi, riportare il pubblico nel passato e far rivivere epoche andate che hanno il sapore della felicità. E’ successo con Raccontami, con Questo Nostro Amore e perfino con La Mafia Uccide solo d’Estate, grazie ad un lavoro minuzioso di ricostruzione storica, trucco, parrucco e costumi. Ed è successo nuovamente con C’era Una Volta Studio 1, di cui ieri è andata in onda la prima puntata portando a casa un ottimo 25.68% di share. Ma, assodato e messo da parte l’impatto emotivo del ricordo, cosa resta?
C’era Una Volta Studio 1: poca originalità e tanta nostalgia
La storia imbastita per raccontare il magico mondo di Studio 1 non è delle più originali, anzi, è trita e ritrita. Ci sono tre amiche stile Le Ragazze di Piazza di Spagna che muovono i primi passi in settori diversi del mondo dello spettacolo, scontrandosi con i soliti approfittatori ai quali non vogliono concedersi; una di loro ha un figlio che nasconde, espediente abusato in tante fiction con registri diversi, e tutte peccano di un’ingenuità imperante che non convince.
Ci aveva avvisati il creatore di Studio 1 Antonello Falqui – qui interpretato da un convincente Edoardo Pesce – che ha bocciato il progetto anche perchè “gli intrecci d’amore non c’entrano niente con la storia di quel varietà“. E, dopo aver visto la prima puntata, bisogna ammettere che forse non aveva tutti i torti. Creare delle linee personali era tuttavia necessario per arrivare al telespettatore di oggi e creare empatia, bisognava però fare uno sforzo in più in termini di originalità, a maggior ragione visto che tutto il resto era già scritto.
Convincono Giusy Buscemi con la sua Elena, civetta e superficiale che prova a migliorarsi pur finendo sempre per farsi aiutare da un uomo, e Diana Del Bufalo, personaggio esplosivo nella vita che in scena riesce invece a contenere la verve dove necessario per dare intensità. Convince un po’ meno, invece, Alessandra Mastronardi, legata dai tempi de I Cesaroni sempre allo stesso ruolo: quello della brava ragazza pura, talentuosa e sulla carta integerrima che, però, puntualmente tradisce, ferisce e poi passa anche per vittima. Ma basta.
Resta comunque l’ottima intuizione di sfruttare le teche Rai, elogiare un passato glorioso che è e resta un vanto e, soprattutto, mostrare un dietro le quinte che spesso è più interessante di ciò che avviene in scena.
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Titti dice:
"Se questa miniserie è arrivata al 25 e passa % un motivo ci sarà". C'è: il pubblico è stato educato a questo genere di prodotti, più emotivi che credibili. Siamo molto lontani dalla Rai di Bernabei e dalla rivoluzione di Studio Uno.
DDD dice:
Non sono d'accordo. Se questa miniserie è arrivata al 25 e passa % un motivo ci sarà. E la semplicità della sua storia è sicuramente una sua forza: semplice non vuol dire banale! Non si poteva fare un'operazione nostalgia tout court, parlando di Studio 1; si rischiava di tirar dentro solo chi quegli anni li ha vissuti (ovvero ultra sessantenni). Questa miniserie evidenzia il cambio di rotta che le fiction Rai stanno avendo: anni addietro sarebbe stata una marchetta; oggi, invece, il contesto (Studio 1) diventa un pretesto. Gli espedienti registici poi, quando si passa dalla storia narrata ai filmati reali d'epoca, quasi in stile mockumentary, ha in sé una chiave di modernità che la metà basta. E comunque a vederla c'erano una marea di laureati tra il pubblico...che non li definirei proprio il classico pubblico della fiction Rai.
Titti dice:
"Creare delle linee personali era tuttavia necessario per arrivare al telespettatore di oggi e creare empatia, bisognava però fare uno sforzo in più in termini di originalità, a maggior ragione visto che tutto il resto era già scritto." Più che altro era necessario attingere alla tradizione letteraria del romanzo storico e a quella televisiva dello sceneggiato per dare un minimo di profondità storica, per la quale è insufficiente l'ambientazione, e collocarvi linee personali più credibili proprio perché più autentiche rispetto al tempo che si narra. Rimaniamo sempre nel dubbio se si tratti di una scelta, rivelatrice di un'opinione sul pubblico generalista non proprio lusinghiera, o di una lacuna culturale di sceneggiatura e regia.