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dicembre

Giovanni Bossetti (manager contenuti italiani non fiction di Netflix) a DM: «Prima di lanciare un reality, volevamo guardarci intorno. Noi parliamo allo stesso pubblico che guarda la tv lineare»

Giovanni Bossetti

Giovanni Bossetti

E’ arrivato per Netflix il momento di debuttare nel mondo dei reality anche in Italia. Esce venerdì Summer Job, nuovo show in cui un gruppo di ragazzi svogliati pensa di andare in vacanza ma si ritrova a dover lavorare per “poter pagare” i giorni di svago, raccontati da Matilde Gioli. Un esordio nel genere che avviene un po’ in ritardo rispetto al resto del mondo, di cui abbiamo parlato con Giovanni Bossetti, manager per i contenuti italiani non fiction della piattaforma streaming, con un passato in Discovery e in Banijay. L’occasione, oltre a chiarire i motivi della scelta di Summer Job, si rivela anche il pretesto per fare il punto con schiettezza su cosa davvero Netflix cerchi.

Summer Job è il primo reality di Netflix Italia. Arriva un po’ in ritardo rispetto agli altri paesi.

Arriviamo un po’ dopo perché ci siamo presi il tempo di guardarci intorno. Un servizio come Netflix ha il vantaggio di rendere i contenuti disponibili in tutto il mondo subito ma crea un’abitudine di visione diversa perché, salvo rare eccezioni, le versioni internazionali di alcuni formati il pubblico normale non le vedeva, prima le vedevamo noi addetti ai lavori per adattare o, a volte, anche rubare delle idee. In questo caso si poteva fare l’adattamento di un format che già abbiamo, come The Circle o Too Hot To Handle, ma abbiamo voluto concentrarci sulla ricerca di un original. A livello unscripted, l’anno scorso abbiamo prodotto Una Semplice Domanda, con un volto televisivo come Alessandro Cattelan, perché volevamo dare un segnale: annunciare che l’unscripted stava arrivando anche in Italia. Quello era un progetto molto personale, molto legato ad un’idea di Ale, nel frattempo stavamo già lavorando a Summer Job. Diciamo che ci siamo presi un po’ di tempo per capire dove ci sentissimo più a nostro agio e in che direzione pensavamo fosse più giusto andare.

E’ anche una novità in termini di linguaggio.

Penso sia stata la vera sfida nonchè una parte divertente. Avendo lavorato in passato su adattamenti per la televisione lineare, quando ci siamo messi a pensare a Summer Job, ci siamo posti un sacco di domande: il ruolo della conduttrice su un servizio come Netflix cambia? Secondo me sì, anche per il nostro metodo di rilascio unico. Dunque, i coming up non servono, Matilde doveva fare un lavoro diverso rispetto al ricordare ogni volta dove sei. Poi è chiaro che abbiamo potuto raccontare questo gruppo di ragazzi, tra i 18 e i 23 anni, con maggiore libertà, le parole che usano, il tipo di comportamenti che adottano; sempre chiaramente nell’ambito di una trasmettibilità.

Come dicevi poc’anzi, il rilascio sarà unico. Proprio con i reality, però, a livello internazionale Netflix sta sperimentando forme diverse per le uscite.

La cosa bella di Netflix è che per ogni progetto hai la possibilità di trovare la formula che, secondo te, è più convincente. Ogni volta ci interroghiamo su quale sia il metodo di rilascio più giusto, quello standard è quello unico. Nel caso di Summer Job non avrebbe avuto particolare senso agire diversamente perché è vero che c’è una competizione, è vero che ci sono delle eliminazioni ma non è un talent dove la competizione la fa da padrona, sei più interessato alla storia che i ragazzi raccontano in 8 puntate.

A proposito del ruolo della conduttrice, può sembrare un’inezia però balza all’occhio che Matilde Gioli conduce seduta. Perchè?

matilde gioldi summer job

Matilde Gioli in Summer Job

Abbiamo pensato di darle una seduta perchè avevamo quello spazio nella nostra Palapa, chiamiamola così, e sapevamo che anche i nostri ragazzi sarebbero stati seduti. Volevamo tenerla con una linea di sguardo pari, senza distacco rispetto a loro, anche per non avere quell’impressione da conduttrice classica da reality.

In conferenza stampa c’era chi parlava di intento educativo di Summer Job, provocatoriamente però è possibile leggere un sottotesto diseducativo: il lavoro è una specie di penitenza e facendo il tuo dovere vinci 100 mila euro. C’è un aspetto spinoso.

Sì, chiaramente ci siamo interrogati anche rispetto alla cifra messa in palio; non nascondo che davamo per scontato che sarebbe scesa. Rispetto al lavoro, ci siamo concentrati su un lavoro estivo, da fare mentre sei in vacanza, siamo partiti dal voler raccontare un’estate di quando hai quell’età lì. Secondo me siamo riusciti a gestire anche le conversazioni che hanno i ragazzi rispetto al lavoro.

In una tua vecchia intervista, racconti di come ti propongano tantissimi documentari. E’ innegabile che l’Italia abbia di recente “scoperto” i documentari: è la nuova panacea, è una bolla che sta per esplodere o c’è ancora da esplorare?

Credo che in qualche modo sia tutto iniziato in Italia con SanPa. Il suo successo ha provocato una sorta di ossessione collettiva per i documentari, di cui sono molto contento. Dal punto di vista dei produttori, ti confermo che è ancora un tipo di contenuto che mi pitchano settimanalmente. Credo che ci sia ancora molto da dire e mi fa molto piacere vedere che non siamo gli unici a farlo, perchè io tendo a pensare all’intrattenimento come un ecosistema. La realtà della non fiction è ancora in una sorta di fase di start up quindi non abbiamo il volume per fare tutte le serie documentaristiche che mi piacerebbe fare. In più, in un servizio come Netflix, hai la possibilità di vedere cosa arriva dall’estero; ci sono documentari, penso a Pepsi dov’è il mio jet, la mia ultima ossessione, che cambiano molto il racconto. Nel caso specifico, si tratta di un racconto in 4 puntate che ha un taglio molto pop, divertente. Il documentario non deve essere per forza crime,  genere da cui siamo partiti anche noi.

In termini di rispondenza del vostro pubblico, notate differenze marcate rispetto alla tipologia?

Quello che mi stupisce molto è la grande curiosità che c’è per questo tipo di contenuto in generale. E’ chiaro che, pensando ai lanci recenti, un titolo come Wanna abbia generato una risposta importante, di cui siamo molto contenti. Wanna mette insieme alcuni elementi che sono indicatori di quello di cui la gente ha bisogno, ha voglia. Ci ha dato la possibilità di fare un racconto molto pop, colorato, anche di una parte della storia recente dell’Italia e della televisione stessa, unendo anche degli elementi scam, che poi, nel frattempo, è diventata una tendenza sul nostro servizio, penso ad Inventing Anna, Il Truffatore di Tinder e altri titoli del genere.

Vedremo altro su questo filone?

Me lo auguro. Noi siamo al lavoro su altri titoli.

Cattelan torna?

Sta facendo un’altra esperienza. Credo sia una cosa molto giusta per lui, l’altro suo sogno era quello di continuare a fare il late night e mi pare che ora abbia trovato il suo spazio. Ma siamo sempre in conversazione. Quando è arrivato da noi, abbiamo scelto di comune accordo di non legarlo con un’esclusiva, non ci preoccupava che avesse appena fatto o dovesse fare dei programmi in Rai. E’ la bellezza di lavorare come stiamo lavorando.

Ma Netflix è interessata ai grandi volti della televisione generalista?

E’ tutto interessante nella misura in cui trova una sintonia con l’idea su cui stiamo decidendo di puntare. Matilde è l’esempio lampante: quando ci siamo posti il problema su chi fosse la persona giusta per condurre un programma come questo, con Banijay abbiamo fatto una serie di nomi e Matilde ci ha convinti tutti subito.

Dunque non c’è stato un tentativo di differenziazione, del tipo scelgo la Gioli e non la Marcuzzi.

Non c’è a monte una preclusione. Non posso dire: “un reality Netflix non verrà mai presentato da una conduttrice”. Matilde ci ha conquistato con un entusiasmo che non è scontato in questo lavoro. Oltre al fatto che ci piaceva l’idea di buttarci tutti in una prima volta.

Un reality Netflix in cosa è diverso, se è diverso, rispetto ad uno tradizionale?

Io penso, ed è una cosa su cui ci interroghiamo spesso, che la strada non sia andare a scardinare il sistema e produrre qualcosa di completamente diverso. Noi parliamo allo stesso pubblico che guarda la televisione lineare; l’importante è partire da generi e formati con cui la gente ha una familiarità, un’abitudine di visione molto forte. All’interno di quei generi, come abbiamo fatto o come abbiamo tentato di fare in Summer Job, bisogna lavorare sul linguaggio per renderlo più agile su un servizio come Netflix. E’ una sorta di errore che in qualche modo abbiamo dovuto aggiustare nelle conversazioni con i produttori, perché inevitabilmente, nell’approcciarsi a noi, la loro prima volontà è portarci qualcosa che non si è mai visto. Il risultato è che spesso mi ritrovavo a leggere dei contenuti di una complessità e di un livello cervellotico importante perché c’era una volontà di fare qualcosa, come si dice in gergo, di groundbreaking. Se capitano ben vengano, ma è molto difficile reinventare la ruota, l’indicazione che io do è di muoversi nei generi che conosciamo, e che il pubblico ama, e provare a capire quanto sono flessibili e che forma possano prendere su di noi.

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1 Commento dei lettori »

1. controcorrente ha scritto:

14 dicembre 2022 alle 17:35

si ostinano a “venderceli” come reality e sono soltanto delle docufiction con tanto di personaggi e sceneggiature gia’ scritte



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