Questa settimana è toccato a Michela Giraud. Altro giro, altro monologo. Di turno alla conduzione de Le Iene, in coppia con il conduttore fisso Nicola Savino, martedì sera la comica romana ha pronunciato un discorso contro gli hater, in risposta a quanti la attaccano sui social. “Fare schifo è un diritto ed è un diritto che rivendico con orgoglio“, ha affermato, ribaltando le offese contro i suoi odiatori. Così, l’artista ha proseguito quello che nel programma di Italia1 è ormai diventato un vero e proprio genere, uno spazio codificato.
“Quando mi hanno scritto ‘fai schifo’ e ho pensato: anche se fosse? E quindi? E a quel commento ho messo un bel like. Una delle cose più liberatorie che mi siano mai capitate nella vita… Mi sono detta: sai che c’è? E’ vero, io faccio proprio schifo. Ragazzi ma quant’è bello fare schifo? Ma che libertà incredibile è? In un’epoca in cui tutti vogliamo essere migliori, in cui tutti siamo prigionieri dello sguardo degli altri, darci la possibilità di fare schifo è un atto rivoluzionario“
ha affermato Michela, dichiarandosi vittima dell’odio in rete e offrendo una chiave di lettura per contrastare questo fenomeno. Per quanto forti e significative, le parole della comica ci sono sembrate quasi prevedibili, fortemente depotenziate. In alcuni passaggi banali. Anche perché ormai il monologo femminile a sfondo sociale non è una novità a Le Iene: il ripetersi di questo momento a cadenza settimanale ha reso il tutto molto convenzionale.
La settimana scorsa la giovanissima cantante Madame aveva parlato della scarsa autostima (“Prendevo ansiolitici come fossero acqua. Un dolore atroce. Non mi amavo“), quella prima la pallavolista Paola Enogu aveva tuonato contro le discriminazioni subite (“La gente preferisce giudicarmi per chi amo, per il colore della mia pelle e il mio passaporto“). E, prima ancora, Elisabetta Canalis si era scagliata contro chi la criticava per il suo amore verso gli animali. Rocío Muñoz Morales si era schierata contro il razzismo, Elodie contro la violenza sulle donne, da lei stessa avvertita. “Quando facevo la cubista, il mio corpo era il colore e l’immagine del locale. Ma bastava un solo gesto o un solo sguardo per farmi sentire sbagliata“.
Prese singolarmente, le suddette testimonianze hanno senza dubbio un loro peso specifico, sebbene intrise di ovvietà. Tuttavia, l’idea di «formattizzarle» in una immaginaria catena ci convince poco, perché ricade nel rischio dell’ipocrisia all’inverso. Nel concetto, cioè, che una donna alla conduzione di un programma televisivo debba necessariamente lanciare un messaggio forte, un appello, un richiamo o dare conto di un vissuto difficile per dimostrare di avercela fatta, nonostante tutto (ma quando ce l’hai fatta sei un modello da seguire o un modello poco reale?). Prerogativa che invece non viene richiesta ai conduttori uomini.
E questo, paradossalmente, offre un’immagine della donna altrettanto stereotipata. L’esatto opposto dell’effetto che si vorrebbe ottenere.
1. giauz ha scritto:
11 novembre 2021 alle 12:51