Mi stupisco di me stesso. Non solo, difatti, canticchio qualche motivetto sanremese, ma ho persino acquistato qualche brano della sessantesima kermesse canora. Roba impensabile, se mi fossi dovuto fermare al primo ascolto di martedi 16. Ma tutt’altro genere di ascolto – quello pubblicato mercoledi mattina da Auditel – mi ha spinto a fare qualche riflessione in più e a capire le ragioni di un Festival di Sanremo che è riuscito nell’inimmaginabile impresa di bissare – e superare – i successi dell’edizione 2009 targata Bonolis.
Certo, il Festival numero 60 è stato lontano anni luce dall’evento che - chi vi scrive - si augurerebbe di veder realizzato nella città dei fiori, ma sono due gli aspetti che hanno contraddistinto positivamente quest’edizione da record: il primo risiede certamente nella voglia di serenità dell’italica penisola, soddisfatta appieno da una conduzione semplice, senza sovrastrutture. Ma al riguardo sono già stati spesi fiumi di parole, tanto per rimanere in tema. Sul secondo, invece, occorre soffermarsi maggiormente visto che, pur essendo stato sottolineato più volte dallo staff festivaliero (Costanzo, Mazzi e Clerici in primis), non è stato dato spazio adeguato lì dove sarebbe stato opportuno.
Gli artisti e la musica di questa edizione del Festival di Sanremo, infatti, sono espressione di quel nuovo modo di vedere lo showbiz che – piaccia o no - è prepotentemente entrato nelle case degli italiani con la prima edizione del Grande Fratello e che vede nella partecipazione attiva del pubblico la sua massima espressione. Un’interferenza autorizzata e un’ingerenza popolare destinata a modificare i meccanismi dello showbiz.
E a poco valgono le spietatissime pagelle dei giornalisti più in voga al Festival di Sanremo, quelli che per intenderci guardano quasi con disgusto alla conquista del palco dell’Ariston da parte dei “reduci da talent”. I palati raffinati sono destinati giocoforza a cozzare con l’imperante volere popolare che – ora come non mai – decreta vincitori e vinti di qualsivoglia espressione dell’artisticità nostrana non limitandosi più a decretare, quasi in sordina, il successo o meno di un programma, telecomando alla mano. E probabilmente anche un aggiornamento degli organi di informazione sarebbe opportuno. Mi ha stupito ciò che scriveva solo due giorni fa Marinella Venegoni per La Stampa quando, parlando di un Festival anormale, era pronta a sentenziare:
Bei tempi, quando un mese prima ascoltavi le canzoni del Sanremone e riuscivi subito a capire almeno la terna dei favoriti, e spesso indovinavi pure il vincitore. Ora non può più essere così.