Snervante frustrazione, ecco quello che avverte un telespettatore che abbia acquistato il pacchetto reality di Mediaset Premium, costretto com’è a scontrarsi minuto per minuto con il male necessario delle scelte di regia, e con quei soli due spiragli che questo Grande Fratello lancia qua e là nel disperato inseguimento del gran numero di concorrenti dispersi nello spazio grandissimo della casa. Proprio quella stessa sensazione di impotenza che è antinomica rispetto al desiderio di visione totale insito nel voyeurismo sociologico (e patologico) da reality.
Bei tempi quelli in cui l’interattività sposava l’ambizione di potere dello spettatore e il telecomando regalava la disponibilità di tutta, ma proprio tutta la casa. Il tempo invece ha reso essenzialmente impossibile vivere con spirito critico, e con naturalismo da realtà, la diretta della casa: il numero degli occhi è diventato inversamente proporzionale al numero degli ambienti e dei concorrenti. Capita di essere appassionato da un dialogo colmo di frangenti di autenticità, proprio perché intavolato in un momento di stanchezza e di lapsus freudianamente propizio per capire meglio i concorrenti, e proprio sul più bello arriva lo stacco. Secondi insistiti di vuoto sul giardino deserto, leopardiane visioni della luna mentre magari dentro si consuma, inosservata, un’elaborazione concreta di strategia poco limpida. E’ statisticamente provato che la regia prediliga la visione di un Nando intento a rabberciare il boxer, se non a spremere un puntino nero ostinato, piuttosto che un dialogo, sicuramente più degno di nota, di qualsivoglia inquilino.
Per avere una minima idea di come sia grottesco l’effetto di parzialità della visione, con un corollario di diffidenza sempre più diffusa per la trasparenza delle dinamiche autoriali, basta calcolare matematicamente la possibilità che hanno due sole regie di intercettare quindici concorrenti distribuiti spesso su terrazza, giardino, camere da letto, cucina, soggiorno, sauna, magazzino. Per non parlare del caso attuale, ancora più grave, che vede don Pittbull chiuso negli abissi della casa, con il conseguente imbarazzo della regia che ogni tanto, per dimostrare che Scattarella sopravvive nel girone della punizione, è costretta a tenere a stecchetto di visibilità il grande gruppo in superficie.
L’effetto negativo principale è che la conoscenza dei concorrenti è sempre più sottomessa al potere della regia suprema. Un personaggio più meditativo che esuberante proprio a causa di questo meccanismo ha pochissime possibilità di essere visto. Nel regno in cui apparire è potere, rimanendo così le cose, il mostrare diventa manipolazione del consenso. Diventa sempre più importante la pantomima del serale settimanale così grossolanamente giocata su stereotipi e macchiettismi esasperati. Il melodramma prevale sempre più sul reality in poche parole.
Appurato che la visibilità assoluta è un’astrazione fortunatamente impraticabile, il difensore del reality come strumento di conoscenza antropologica non può non contestare l’alienazione della libertà di scelta analitica della visione, un’espropriazione strettamente influente sulla consapevolezza della perduta sincerità del gioco. Se il reality seleziona la realtà perde il presupposto di base e diventa sempre più un varietà da paleotelevisione, fatto però da aspiranti celebrità prive di spessori e contenuti.
Un reality che, come una cellula priva del suo nucleo, vaga per l’etere imbastardendo il senso di realtà interno con innesti continui di satelliti esterni esasperati, creando autorappresentazioni manipolate ad arte per estenuare l’immaginazione delle vittime di turno.
1. mats ha scritto:
30 dicembre 2010 alle 13:36