13
luglio

IL SESSO ALL’ARIA DI AL FAYED

Lady Diana cadavedere @ Davide Maggio .it

IL SESSO ALL’ARIA DI AL FAYED (rectius EL “SEXO AL AIRE” DE AL FAYED)

Così titola il settimanale spagnolo INTERVIU’ che aggiunge, ad ormai nove anni dalla morte di Lady D e Dodi Al Fayed, un nuovo inquietante particolare che porrebbe fine ad una delle più grandi cospirazioni degli ultimi anni, chiarendone tutti i perchè.

La notizia trova la sua fonte in un fotografo francese (Jean-Michel Caradec’h) che, entrato in possesso (segretamente) di tutta la documentazione relativa all’incidente dell’Alma, avrebbe studiato minuziosamente le 4000 pagine del dossier, pubblicando foto e testimonianze che, sino ad ora, erano sconosciute ai più.

NESSUN OMICIDIO, NESSUN COMPLOTTO DELLA FAMIGLIA REALE ma semplicemente (purtroppo) un INCIDENTE STRADALE dovuto ad un ERRORE UMANO.

E’ risultata fondamentale, ai fini della ricostruzione di Caradec’h, la testimonianza di un altro fotografo francese (Romuald Rat), che ha seguito passo passo la coppia in quel di Parigi arrivando per primo sul luogo dell’incidente.

“Apro la porta posteriore destra. Vedo Dodi Al Fayed scomposto sul sedile, sdraiato di fronte a me, con gli occhi semichiusi. Vedo un tappetino dell’auto sulla principessa Diana. Lo scosto per vedere se sia ancora viva e la sistemo sul basso ventre di Al Fayed che ha il sesso all’aria. Mancano pochi minuti alla mezzanotte e mezza del 31 agosto 1997.”

Questo è ciò che la Brigade Criminelle di Parigi avrebbe verbalizzato quella notte dell’agosto 1997 in base a quanto dichiarato da Rat.

Sarebbero, dunque, le effusioni tra Lady D e Dodi ad aver distratto il già “confuso” autista Henri Paul.

Gli esami tossicologici hanno, infatti, accertato la presenza di 1.87 grammi di alcool/litro nel sangue dell’autista, quantità tre volte superiore a quella consentita in Francia. Circolava, per di più, ad una velocità inadatta alle condizioni del Tunnel.

C’è di più!

Lady Diana Ultima Foto / Last Pic @ Davide Maggio .itL’ultima foto della principessa Diana (scattata subito dopo l’apertura della portiera della mercedes su cui viaggiava) saranno pubblicato da un giornale italiano, CHI.

All’interno, ci sarà una ricchissima intervista a Jean-Michel Caradec’h, il fotografo autore del libro - Lady Diana, L’enquete Criminelle, che fornisce, in dettaglio, i motivi per cui, assodato che si tratterebbe di incidente stradale, sarebbero da escludere le tantissime ipotesi susseguitesi in questi nove, lunghi, anni.

Ecco l’intervista di Nicoletta Sipos per CHI nel numero da oggi in edicola.

Domanda. Quindi lei ha lavorato sul dossier della polizia?
Risposta. «Sì. Sono quattromila pagine di documenti e una quantità di foto inedite. Un materiale immenso, in parte, certo, ininfluente per il grande pubblico. Poco ci importa conoscere gli apparecchi usati per le analisi e le circostanze del reperimento di ogni prova. Ho tratto, invece, informazioni preziose dai verbali degli interrogatori, che riproduco in gran parte anche con gli errori di battitura. Qui c’è tutta la verità, almeno dal punto di vista della polizia. Ed è una verità che riesce ancora a sorprendere. L’inchiesta, infatti, è stata ampia, puntigliosa e oggettiva. Gli agenti hanno seguito tutte le tracce e perfino le testimonianze più bislacche».

D. Per esempio?
R. «Un turista inglese disse di avere visto l’incidente nel tunnel dell’Alma dalla finestra del suo albergo, l’Hotel Alma. Gli agenti andarono lì e misero agli atti, doverosamente, che da quella finestra era impossibile vedere quanto accadeva dentro il tunnel».

D. Come ha reperito il dossier?
R. «Preferisco mantenere il segreto su questo aspetto del mio lavoro. Si tratta di materiale riservato, ma ce ne sono diverse copie in circolazione, non è impossibile rintracciarlo. Prova ne sia che io ci sono riuscito».

D. Non ha tentato di ritrovare i testimoni?
R. «Per carità. Nei verbali ci sono i racconti fatti poche ore o pochissimi giorni dopo l’incidente, quando i ricordi erano ancora freschi. Da allora sono passati quasi nove anni, il tempo ha confuso i ricordi. Inoltre i testimoni hanno sicuramente letto infiniti articoli e decine di libri che hanno ricamato sui fatti a scapito dell’oggettività».

D. Per cominciare: fu un incidente o un attentato?
R. «La tesi dell’attentato emerse subito dopo la morte di Diana, lanciata dalla stampa araba, e fu immediatamente appoggiata dal padre di Dodi, il ricchissimo e potente Mohammed Al Fayed (vedi anche l’intervista di Daphne Barak apparsa su “Chi” n. 8/2006). La polizia francese l’ha presa in doverosa considerazione, ma non ha trovato neppure l’ombra di un indizio che possa giustificarla. L’automobile non portava alcun segno di manomissione, l’ingerenza dei servizi segreti nei percorsi e nelle scelte di Dodi e Diana non è mai stata confermata. Al contrario: tutte le guardie del corpo hanno testimoniato che fu solo Dodi a decidere itinerari e modalità del soggiorno, e che cambiò spesso i suoi piani».

D. Tanto basta per escludere l’intervento di un killer?
R. «Sì. Per di più, gli agenti segreti che io ho intervistato dando loro l’assoluta garanzia di anonimato mi hanno confermato che mai si penserebbe di uccidere delle personalità all’estero, come sarebbe stato il caso degli inglesi Diana e Dodi a Parigi. E mai, comunque, inscenando un incidente automobilistico, che per sua natura non è un valido strumento d’omicidio. Gli esperti hanno sempre ribadito che Diana e Dodi potevano anche salvarsi, se avessero allacciato le cinture di sicurezza».

D. Mi sta dicendo che furono uccisi da una loro leggerezza?
R. «La ricostruzione dei fatti svela una loro fragilità più sorprendente e umana, parte di una serie di coincidenze che hanno segnato il loro destino».

D. La giustizia francese ha “incastrato” l’autista, Henri Paul…
R. «Il povero Paul era un alcolista che, per di più, assumeva un farmaco antidepressivo e diversi medicinali per curare la sua dipendenza. Tutto questo è ben documentato dalle testimonianze di due medici, uno dei quali era anche suo amico. Aveva bevuto più del lecito anche quella sera, come provano le consumazioni fatte al Ritz. Inoltre era un uomo della sicurezza del Ritz, non era abilitato a guidare in condizioni estreme un’auto potente come la Mercedes 300 che gli era stata affidata. Con quei presupposti la tragedia era quasi inevitabile. Nel suo sangue si sono riscontrati 1,87 g d’alcol al litro, oltre tre volte più del limite legale, che è 0,5 g al litro».

D. I genitori di Paul hanno denunciato su “Chi” (vedi n. 36/2004) uno scambio di provette. Il sangue esaminato non sarebbe stato quello di Henri…
R. «Impossibile. Capisco e compatisco i genitori che difendono il figlio. Credo che siano anche in buona fede: probabilmente non hanno mai visto bere Paul in compagnia, i medici dicono che tendeva a bere quando era solo. Ma non è il caso di parlare d’imbrogli. Sono stati prelevati ben 5 campioni di sangue dal cuore e dall’arteria femorale. E il risultato delle analisi, eseguite in due laboratori diversi, viene confermato da test eseguiti su urina, capelli, liquido lacrimale, viscere. Che cosa si vuole di più?».

D. L’autopsia riscontrò nei polmoni dell’autista una quantità di anidride carbonica che si disse non compatibile con le modalità della sua morte…
R. «Lo so, la cosa fu citata come una prova del presunto omicidio. Ma gli esperti della polizia stabilirono che quell’anidride carbonica veniva dall’airbag esploso. No, mi creda, la tesi del complotto non regge. La verità è che Henri Paul non avrebbe dovuto essere con Diana, quella sera. O non avrebbe dovuto bere come fece».

D. Chi lo richiamò in servizio?
R. «Fu Dodi a richiederlo, perché, al suo arrivo a Parigi con Diana, monsieur Paul aveva dato buona prova di sé seminando i paparazzi. Cosa che gli aveva permesso di trascorrere due ore di pace a Villa Windsor, la splendida residenza del duca di Windsor e Wallis Simpson affittata da suo padre, Mohammed Al Fayed, per 25 anni. Da lì la coppia proseguì verso l’appartamento parigino di Dodi in Rue Arsène-Houssaye. E come terza tappa giunse al Ritz, dove c’era ormai uno spiegamento di paparazzi. Perché non si fermarono a Villa Windsor o nell’appartamento di Dodi resta un mistero. Ma la spiegazione può essere semplice: Diana adorava Parigi. Forse voleva solo fare dello shopping in città o un giro in centro. Per accontentarla, Dodi decise di puntare sull’abilità di Henri Paul che aveva finito il suo turno alle 19 e 15. E alle 22 e 05 incaricò Claude Roulet, direttore aggiunto del Ritz, di richiamarlo».

D. Risulta dagli atti che cosa spinse Paul ad accettare l’incarico, nonostante tutto?
R. «Possiamo intuirlo. Paul era il vicecapo della sicurezza del Ritz. Il capo, Jean Hocquet, si era dimesso due mesi prima e lui, comprensibilmente, sperava di ottenere l’incarico. Aveva tutto l’interesse ad accontentare il figlio del padrone. Lo accontentò anche correndo a velocità folle per sfuggire ai fotografi».

D. Sulla velocità della Mercedes gli esperti si sono divisi…
R. «Lo so bene. Si parlò a caldo di 180 chilometri all’ora, poi di 120, poi anche di 90. Noi abbiamo comunque la testimonianza di Trevor Rees-Jones, la guardia del corpo sopravvissuta all’impatto, che alla polizia raccontò: “Non è mia abitudine allacciare la cintura di sicurazza in città, a meno che non si debba andare molto veloce”. Guarda caso quella sera era l’unico ad avere la cintura allacciata».

D. Come si giustifica questa fuga a oltranza dai paparazzi?
R. «Era stata una giornata lunga per Dodi che, a quanto risulta dai verbali, aveva i nervi a fior di pelle e non voleva essere visto da estranei. Dopo vari giri tra Villa Windsor e il suo appartamento, Dodi era arrivato al Ritz nel tardo pomeriggio. L’idea di fare shopping fu rapidamente scartata. Verso le 19, mentre Diana era dal parrucchiere del Ritz, Dodi riuscì però ad andare nel negozio parigino del gioielliere Alberto Repossi. Risulta, tra l’altro, dalla testimonianza della guardia del corpo Rees-Jones, che ricorda di aver accompagnato Dodi dal gioielliere. Stranamente, in automobile».

D. Perché “stranamente”?
R. «Il buffo è che il negozio Repossi è sulla Place Vendôme, come il Ritz. Partendo dall’albergo, basta attraversare la piazza per raggiungere la gioielleria. Dunque è assurdo muoversi in auto. Dodi comunque decise di farlo e si fece dare l’anello “Dis-moi-oui”, senza peraltro pagarlo».

D. Voleva fidanzarsi davvero?
R. «L’anello Repossi sarebbe stato un dono insufficiente per un uomo ricco come Dodi. Ma era sicuramente inteso come un dono speciale. Il fatto è, vede, che Diana non l’aveva. Fu invece ritrovato nell’appartamento parigino di Dodi. Una circostanza che dà il via libera a diverse supposizioni. È possibile che Dodi volesse consegnarlo a Diana più tardi, nella serata, al termine del viaggio interrotto dalla morte. Ma possiamo pensare che Diana avesse rifiutato il dono, e il fidanzamento».

D. Risulta dal dossier?
R. «No. Questa è una mia supposizione. Lo deduco dalla crescente irrequietezza di Dodi. Il miliardario aveva prenotato un tavolo da Chez Benoît per una cena romantica, ma lui e Diana arrivarono con 40 minuti di ritardo sull’orario previsto e il tavolo era stato dato ad altri. Così ripiegarono sul ristorante del Ritz, ma anche lì andò male. Dodi, poco abituato alle conseguenze nefaste della popolarità, si sentì infastidito dagli sguardi curiosi degli altri commensali, come a farsi dire di no da una donna. Così, dopo pochi istanti, decise di farsi servire la cena nella suite che occupava con la principessa. Ma non resistette a lungo neppure lì».

D. Com’era, invece, l’umore di Diana?
R. «A giudicare dai verbali la principessa era serena e vagamente divertita. Una circostanza che può stupire, pensando che per anni Diana aveva vissuto alla Corte inglese, rigida e strutturata, dove le improvvisazioni e i colpi di testa di un Dodi sarebbero stati inaccettabili. Mettendo insieme il puzzle, io deduco che le cose non stavano andando come Dodi avrebbe voluto, ma che Diana era felice di essere a Parigi con lui. Del resto, era il suo ultimo giorno di vacanza. L’indomani sarebbe tornata in Inghilterra, dai figli. Certo, Diana era abituata al codazzo di paparazzi che per Dodi, invece, era una novità pesante».

D. I paparazzi hanno forti responsabilità, eppure la magistratura francese li ha assolti. Perché?
R. «Il giudice Hervé Stephan conclude l’inchiesta optando per un “non luogo a procedere”. I dieci paparazzi inquisiti non hanno avuto alcun ruolo nell’incidente, per il semplice fatto che arrivarono sul luogo dell’impatto “dopo” la Mercedes. Dunque non si sono macchiati neppure di omicidio preterintenzionale. E neppure possono essere ritenuti colpevoli di “omissione di soccorso”. Tra l’altro, dagli atti della polizia risulta che l’incidente avvenne alle 0 e 26 e che non più di 5 minuti più tardi transitò nel tunnel, lungo la corsia opposta, il dottor Frédéric Mailliez, un esperto rianimatore, che constatò la morte di Paul e Dodi e prestò le prime cure a Diana, somministrandole l’ossigeno che la tenne in vita fino all’arrivo dell’ambulanza. Questo non vuol dire che i paparazzi vanno giustificati. Da un punto di vista etico il loro comportamento, prima e dopo l’incidente, fu riprovevole. Ma non criminale».

D. Dove sono finite le fotografie che alcuni di loro scattarono della principessa morta?
R. «Le ha requisite la polizia. Alcune sono state consegnate spontaneamente all’ambasciata inglese. Erano, in parte, foto sconvolgenti, che non dovevano finire in pasto al pubblico».

D. Capisco, la morte non è mai un bello spettacolo…
R. «In questo caso c’è di più. Lo conferma la testimonianza di Romuald Rat, il fotografo che aprì la portiera di destra e si trovò davanti a uno spettacolo sconcertante. Diana era seduta per terra, con la schiena appoggiata al sedile della guardia del corpo Trevor Rees-Jones. La testa della principessa era coperta da un tappetino della Mercedes, scaraventato in aria durante l’impatto. Dice Rat: “Ho sollevato il tappetino per vedere se la principessa respirava ancora, e l’ho appoggiato sul basso ventre di Dodi, il cui sesso era in piena vista”. Poche parole che spiegano la vivacità con la quale Rat tenne alla larga gli altri paparazzi, impedendo loro di ritrarre una scena che dava uno sconvolgente risvolto intimo al rigore della morte. La versione può sembrare poco riguardosa o crudele, ma la testimonianza è nei verbali della polizia».

D. Romuald, comunque, non ha soccorso Lady D.
R. «In verità voleva dare una mano. Romuald, vede, ha un brevetto di pronto soccorso. Era suo dovere aiutare i feriti. Non fece nulla, perché pochi istanti dopo arrivò il dottor Mailliez. Il suo comportamento, nel complesso, si rivela corretto e perfino cavalleresco. Dall’altro canto, la scena descritta da Romuald consente una ricostruzione logica dell’incidente. Si può immaginare che Henri Paul abbia visto gli atteggiamenti di Diana e Dodi nello specchietto retrovisore e si sia distratto, mentre procedeva a velocità sostenuta, perdendo il controllo dell’auto».

D. Cosa risulta dai verbali?
R. «Costatiamo che la Mercedes si trova davanti la Uno bianca che procede nella sua stessa corsia, rallenta con una frenata, supera la Uno urtandone il faro posteriore di destra. Ma ormai Henri Paul ha perso il controllo del veicolo che va a sbattere, sulla sinistra, contro uno dei pilastri del tunnel e poi rimbalza verso il muro a destra. La Mercedes ha comunque superato la Fiat prima di schiantarsi e così il misterioso guidatore della Uno è testimone oculare del disastro. È proprio per questo che la polizia francese l’ha cercato accanitamente, come persona informata dei fatti, ma senza successo. Probabilmente l’autista della Fiat era atterrito ed è fuggito nel terrore di essere in qualche modo accusato di omicidio».

D. Non la fa troppo semplice?
R. «È la convinzione del giudice, che considera la Uno bianca in pratica estranea ai fatti anche se l’ha fatta cercare accanitamente per più di un anno. Se non ci fosse stato di mezzo il problema della Fiat “scomparsa”, l’inchiesta sulla morte di Diana si sarebbe chiusa nello spazio di un mese».

D. Mohammed Al Fayed si convinse che dietro la Fiat c’era molto di losco…
R. «Al Fayed ha portato avanti una contro-inchiesta, sbandierando l’ipotesi del complotto, per amore di padre e anche, mi perdoni la malizia, per interesse personale. L’incidente è avvenuto con un autista scelto del Ritz e un’auto presa a nolo dall’albergo. La responsabilità civile di lui, in quanto proprietario, è chiara. Trevor Rees-Jones e le famiglie di Diana e Henri Paul hanno chiesto milioni di risarcimento».

D. Si è parlato di un fotografo, Adnanson, proprietario di una Uno bianca, che avrebbe partecipato alla paparazzata su Dodi e Diana e finì suicida e bruciato…
R. «Un’altra storia assurda. Conoscevo bene Adnanson, una bravissima persona, padrone di una Uno bianca che quasi non si muoveva più nell’estate del 1997. Quel giorno d’agosto non era neppure a Parigi, ma a Saint-Tropez, figuriamoci che cosa c’entrava con Diana. Ed è vero che lo trovarono morto, ma nel 2000».

D. Niente matrimonio, niente complotto: siamo all’incidente?
R. «Tragico e orribile nella sua banalità. Fa male al cuore parlarne, tant’è che i paparazzi stessi restarono scossi. Chi ha contribuito a montare il caso dovrà risponderne alla sua coscienza, se non alla legge».

D. Quali sono i documenti più incisivi, a suo parere?
R. «L’inventario degli oggetti della principessa, tra cui un braccialetto rotto e un orecchino infilato nella plancia della Mercedes. E il tremendo schema dell’autopsia, da cui risulta che la povera Diana morì dissanguata, con il petto sfondato dall’urto, la vena polmonare e il pericardio spaccati anche per effetto della brusca decelerazione che portò l’auto dai 100 chilometri all’ora a zero».

D. Era incinta Diana?
R. «Il commissario Martine Monteil stornò la domanda, dicendo che l’autopsia non mirava a stabilire un’eventuale gravidanza. Aggiunse però che non c’erano elementi per far pensare a una dolce attesa. Io posso aggiungere che una giovane donna, già madre di due figli, uno dei quali destinato a diventare re, non avrebbe accettato a cuor leggero una nuova gravidanza. M’insospettisce anche l’enorme pubblicità data alla love story di quell’ultima estate con Dodi».

D. Come mai?
R. «Noi sappiamo per certo che Diana ebbe una relazione con il medico pachistano Hasnat Khan. Si amarono in segreto per tre anni e il mondo non ne seppe mai niente. Anzi, quasi certamente Diana era ancora innamorata di Hasnat, quando incontrò Dodi. L’attrazione c’era, ma da qui a ipotizzare un legame forte, per la vita…».

D. Che cosa si evince dal dossier sul conto di Mohammed Al Fayed?
R. «Uno dei punti che mi ha colpito è che Al Fayed, arrivato a Parigi per portare in patria le spoglie mortali del figlio, prelevò senza pensarci tutto ciò che si trovava nella sua suite, inclusi gli abiti di Diana. Al termine dell’autopsia, quando si trattò di comporre il corpo della principessa nella bara, le infermiere non avevano di che rivestirla. Pensi: una donna che due mesi prima aveva fatto battere all’asta per beneficenza 79 abiti per tre milioni e 250 mila dollari! Fu poi la moglie dell’ambasciatore inglese, Sylvia Jay, a offrire alla donna più elegante del mondo un abito nero da cocktail e un paio di scarpe per l’ultimo viaggio».

D. Un’ultima domanda: com’è che il suo libro arriva proprio ora?
R. «Da un canto ho dovuto pazientare molto per ottenere i documenti. Dall’altro, ho stretto i tempi, perché a breve arriveranno i risultati dell’inchiesta inglese che pretenderà di avere trovato la verità totale. Anche se l’inchiesta inglese si basa al 95 per cento su quella francese, e il lavoro più rilevante degli inglesi è stato quello di tradurre i testi dei verbali parigini. Del resto, che altro si poteva pretendere quasi nove anni dopo quei drammatici eventi?».

D. Secondo lei, l’inchiesta francese, e poi quella inglese, metteranno la parola fine alla storia umana di Lady Diana?
R. «No. Questa è la verità della polizia, ma c’è la verità dei cuori. Insomma, resta ancora spazio per ipotesi e sogni. E poi, sappiamo bene che Diana è un mito. E i miti non muoiono. Pensi alle vicende di Marilyn Monroe e di John Kennedy. Pensi al re del rock, Elvis Presley, che molti fan credono ancora vivo. Potremo sapere ogni virgola della morte di Diana: non saranno i verbali della polizia a sciogliere il mistero della sua fine nei nostri cuori».



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4 Commenti dei lettori »

1. KIARA ha scritto:

13 luglio 2006 alle 09:53

SI POTREBBE DEFINIRE UNA "pompa funebre"!



2. Marylove ha scritto:

18 dicembre 2006 alle 01:17

Secondo me è stata uccisa, nessuno me lo leva dalla testa! Così come Marilyn Monroe, era diventata scomoda a troppa gente, figuriamoci se un autista che lavora per gente tanto famosa e potente gli viene in mente di ubriacarsi proprio quando è in servizio, magari lo ha fatto per perdere il lavoro con la speranza di uno migliore? ma che stiamo scherzando? chi dice il contrario lo fa solo perchè ha paura così come fu anche per la diva Marilyn, le furono trovate 40 pasticche nella trachea, ma una che vuole morire, un bel bicchiere dacqua per farsele scendere nello stomaco non se lo beve? se le lascia nella trachea? i fatti sono chiarissimi per entrambi i casi, nessuno vuole morire quando si è famosi belli e ricchi! e poi al proprio servizio non mettono mai dei deficenti al volante ve lo assicuro, qui si parla di Lady D. non di un pinco pallino qualunque che si puzza dalla fame e che mette al proprio servizio un morto di fame!!! Scusate il nervoso, ma davvero credono che



3. merio ha scritto:

3 settembre 2009 alle 14:52

Faccio davvero fatica a credere che Diana e Dodi facessero sesso in macchina con davanti 2 persone estranee. Non ritengo sia stato un ‘incidente” casuale o dovuto cmq allo stato alterato di E. Paul. C’è dell’altro. Vi sono troppe imprecisioni e troppe stranezze e troppe irregolarità nella gestione della tragedia da parte delle autorità ( francesi e inglesi ) Gli americani ? C’entrano qualche cosa anche gli americani in tutto questo calderone ?



4. paola ha scritto:

31 luglio 2015 alle 08:35

Io vedo e mi dà ancora dolore.



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