Una domanda tormenta simpaticamente negli ultimi tempi i telespettatori: ma Vittorio Sgarbi e Daniela Santanché una casa ce l’ hanno? O ormai quel paio di ore che non trascorrono nei salotti televisivi le passano in una brandina accanto ai custodi degli studi? Il prezzemolo ha perso lo scettro di presenzialista per antonomasia da quando i due tuttologi imperversano in ogni ora e in ogni canale. Gli Accademici della Crusca sono dovuti correre ai ripari aggiornando il nostro lessico: se d’ora in poi quando andate a trovare un amico vi dice sei peggio di Sgarbi e della Santanché vuol dire che per un po’ è meglio che cambiate amico da andare a trovare.
Non c’è festivo che tenga: dal lunedì alla domenica sono inchiodati alle poltroncine che ormai hanno la loro sagoma. Qualcuno pensa che abbiano il potere del teletrasporto per quanti programmi riescono a coprire in una settimana. Sarebbe sbagliato però fare di tutta l’erba un fascio e accomunarli come se apportassero lo stesso contributo ai dibattiti. L’unica caratteristica che li accomuna, oltre al ‘nomadismo catodico’, è quell’eterno retrogusto di sfiducia nei confronti della giustizia, un messaggio che lasciano serpeggiare pericolosamente, a dispetto del senso patriottico che tirano fuori alla fine del numero dai loro cilindri.
Il buon Sgarbi è capace al contempo di incantare con una veloce analisi della bellezza del Cristo Morto di Mantegna o dell’Ultima cena di Leonardo, e poi un secondo dopo dare fiato al disco strasentito dell’indignazione per le indagini su Calogero Mannino. Invitarlo è garanzia di clamore, che lo si ami o lo si odi riesce sempre a spiazzare. S’inalbera se gli danno del giurato da Pupa e Secchione ma non declina nessun invito perché tanto per nulla al mondo si limiterebbe a bocciare in diretta un format (e Facchinetti, grandemente amareggiato, ne sa qualcosa) E’ garantista quando vuole ma non gliene può fregare di meno di usare cautela se gli si chiede un parere sul primo passante che gli resta indigesto (chiedere ad Alessandra Mussolini).
Ben diversa è invece la signora Santanchè, amante del glamour ma fustigatrice dei giornali che sbarcano il lunario con i racconti delle serate cool. Moralizzatrice del costume italiano quando a parlare o ad agire sono gli altri, indulgente però con la sua impulsività da donna orgogliosamente paladina di precisi indirizzi culturali. Poche volte però gli avversari si dilettano a farla cadere nei paradossi di cui ultimamente si è resa protagonista. Chi se la ricordasse nei suoi comizi da candidato premier potrebbe avere un coccolone nel sentire adesso i suoi panegirici istituzionali o le sue crociate contro la modernità.
Dal fronte di coloro che i due definiscono magistrati orologiai arrivano segni di stanchezza per la disciplina sempre più in voga del lancio al magistrato, e la condanna definitiva per diffamazione inflitta a Daniele Capezzone, reo di aver dato del teppista al pm che si occupava del caso Marta Russo, dovrebbe metterli in guardia sugli aggettivi e i sostantivi da usare durante le loro plateali catilinarie da ora in poi.
1. Mari 611 ha scritto:
12 febbraio 2010 alle 17:45