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settembre

D. Time è «too much»: Rai1 fa il santino a Lady Diana

D. Time, Rai1

Più che un documentario, una monografia agiografica. “D. Time – Il tempo di Lady D.“, la coproduzione internazionale realizzata da Rai Documentari e proposta ieri da Rai1, ha ricordato la «principessa del popolo» incoronandola post mortem con attributi unicamente positivi. Al punto da farne quasi un santino lontano dalla polifonica realtà o comunque distaccato da essa.

Pur nella varietà dei contenuti trasmessi, il ritratto tv della popolarissima donna è risultato dunque appiattito da una narrazione monocorde che ha utilizzato come unica (e semplicistica) chiave di lettura l’opposizione tra l’emancipato progressismo conquistato negli anni da Lady Diana e il conservatorismo del Palazzo, che avrebbe preferito relegare la principessa a un ruolo più in ombra. E che mal digeriva la libertà di azione e l’influenza sociale esercitate dalla donna.

Il documentario, sin dalle sue prime battute, ha presentato Diana Spencer come icona di un candore emotivo esploso nel tempo, ma presente da sempre. “Diceva che voleva mantenersi integra per quello che la aspettava, cioè che avrebbe custodito la sua verginità e preservato la sua purezza per qualunque cosa le avesse riservato il destino“, racconta alle telecamere il biografo Andrew Morton. In un’alternanza tra immagini d’epoca e testimonianze, “D. Time” ha poi raccontato la trasformazione di Diana da donna “bella ma sottomessa, di poche parole” a “regina di cuori“. Il tutto con una prosa spesso leziosa, priva di un contraltare che avrebbe probabilmente messo in evidenza tutte le sfaccettature della protagonista.

A ricordare la principessa a 24 anni dalla morte sono stati, nel documentario, alcuni giornalisti (tra cui l’ex conduttrice di Itv Trisha Goddard), confidenti e fotografi che la seguirono da vicino o che addirittura la conobbero. Il racconto di questi ultimi, però, ha dato ampio spazio alle luci e poco alle ombre che la stessa Diana confidò di aver attraversato. A queste ultime ha fatto solamente cenno la voce narrante italiana, la giornalista Laura Chimenti. Punto debole della trasmissione, inoltre, si è rivelato il doppiaggio: spesso caricaturale, con intonazioni che tendevano ad attribuire una connotazione positiva o negativa a seconda del protagonista a cui veniva data voce.

Da promuovere invece, per quanto discreta e non invasiva, la conduzione italiana affidata alla già citata Chimenti. La giornalista del Tg1, voce narrante del documentario, ha guidato il pubblico senza prendere il sopravvento sul racconto, riuscendo peraltro a smorzare l’eccessiva retorica di alcuni testi di commento. Un esempio? Diana “utilizzò la sua fama per regalare amore, per dare voce a chi non aveva mai ricevuto attenzioni“, ha chiosato nel finale la giornalista, descrivendo la compianta principessa come “una stella che si è spenta 24 anni fa ma che ancora oggi continua a brillare“. Maybe too much, avrebbero detto pure oltremanica.

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