9
agosto

My Unorthodox Life: un racconto ‘poco ortodosso’ che è molto più di ciò che sembra

Julia Haart

Julia Haart

L’interesse per gli ebrei ortodossi e per la loro comunità, caratterizzata da regole ferree, arcaiche e lontane anni luce da quelle a cui il pubblico è abituato, cresce sempre di più. In particolare quello di Netflix, che dopo Shtisel e Unorthodox ha lanciato di recente la docuserie My Unorthodox Life: racconta la vita quotidiana di Julia Haart, oggi CEO di Elite World Group, che, prima di conoscere il lusso sfrenato di Manhattan, era un’ebrea ortodossa. Fino a 8 anni fa viveva “prigioniera” a Monsey di una realtà che le impediva di scegliere chi amare, cantare in pubblico, mostrare i capelli o indossare i pantaloni.

Il tono, almeno nelle prime battute, è provocatorio e la serie si apre con Julia che dà consigli sessuali alla figlia maggiore e al genero, un ragazzo ancora “vecchio stile” che si sta sforzando di allargare le proprie vedute. Lo fa in maniera esplicita, parlando di sesso orale e posizioni, forte della stessa disinvoltura con la quale regala alla figlia minore bisex un vibrat0re, che possa aiutarla a scoprire il piacere e, di conseguenza, capire come procurarlo ai propri partner.

Ma questa sfrontatezza, i lustrini, la frenesia della sua agenzia di moda e gli eccessi che caratterizzano Julia e la sua famiglia, non devono trarre in inganno, perchè questa vita non ortodossa è molto altro. Dietro ai tacchi vertiginosi e all’ostentazione ribelle c’è lo sfogo che viene dalla repressione prolungata, c’è una donna che ha dovuto lottare per la propria autonomia e per quella dei suoi figli, che è scappata dalla vita che conosceva, che si è rimessa in gioco ed è riuscita a fare della sua passione per la moda (è stata anche direttore creativo de La Perla), mai vissuta appieno fino ad allora, un lavoro di successo.

Non solo un lavoro, dice: è una missione. Perchè il diritto di affermare la propria identità continua ad essere la priorità di Julia Haart, che fa della sua battaglia quella di tutte le donne, in ogni ambito e contesto possibile. Così sostiene le modelle che subiscono molestie, ne assume di diverse fisicità, include transgender nelle proprie sfilate e valorizza in ogni modo possibile la femminilità, per dimostrare al mondo che essere donne non è peccato.

Julia racconta, infatti, che per gli ebrei ortodossi è la donna ad indurre in tentazione l’uomo, è lei la responsabile delle sue eventuali trasgressioni. Quindi le donne in quel tipo di comunità devono essere meno appariscenti possibile e soddisfare i desideri dei mariti, anch’essi vittime del sistema e cresciuti con una mentalità ristretta: emblema di ciò è il figlio più piccolo della donna, Aron, che si divide tra lei e suo padre ortodosso e rifugge ogni contatto con il mondo esterno per paura di esserne contaminato.

Julia non lo accetta e cerca di cambiare le cose; la sua battaglia si estende così di fatto anche gli uomini, diventando una crociata per la libertà a tutti gli effetti, ricca di esperienze e punti di vista interessanti. Il programma parla anche un po’ italiano perché Julia è sposata con il milionario Silvio Scaglia, ex manager di Omnitel nonchè fondatore di Fastweb e della holding che detiene Elite World.

In generale l’elemento familiare è molto importante all’interno del reality di Julia. Un programma che funziona perchè, mescolando vari temi e binari, è capace di far riflettere lo spettatore senza annoiarlo mai: trovare tanta sostanza dietro una forma così colorita – e talvolta un po’ trash – è, del resto, tutt’altro che ordinario.



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