Sorpresona: Netflix è un’azienda che mira al profitto esattamente come le altre. E’ strano ribadirlo ma i ‘moti di protesta’ contro l’azienda di Los Gatos ci spingono a farlo. Fanno rumore le numerose cancellazioni perpetrate da Netflix. La piattaforma streaming, che in passato ha abituato i sottoscrittori a rinnovi in blocco, ora sembra dare poche chance di crescita progressiva ai suoi titoli in barba ai desiderata dei fan più accaniti. La parola d’ordine sembra essere turnover. Qualcosa è cambiato, non c’è dubbio.
Ma più che la mentalità aziendale, che è ancora votata alla grandezza, a cambiare è lo stato del ciclo di vita di Netflix. L’azienda, ormai, ha smesso di essere il pioniere in un nuovo territorio per assumere i panni di leader riconosciuto di un settore ancora in espansione ma per molti versi già plasmato. Arrivare per primi e meglio dà il vantaggio di poter dettare le regole sparigliando le carte, nel lungo periodo però è impossibile sfuggire a tutte le logiche che governano un più ampio macro settore consolidato.
Se in una prima fase aveva senso investire, insistere sui prodotti e attribuire un grosso peso al ritorno in termini di immagine, cambiato il contesto, cambiano le priorità. Bisogna fare delle scelte. Così una serie resiste solo se ha un buon rapporto in termini di costi/visualizzazioni e le nicchie hanno senso quando sono globali o se sono tali in un’ottica mondiale (ad esempio una serie forte nel paese di provenienza e snobbata al di fuori). L’ennesima stagione, oltre a costare di più, ha scarso appeal per i nuovi abbonati e va incontro a cali fisiologici presso i vecchi sottoscrittori; sparare un titolo dopo l’altro, invece, dà l’immagine di freschezza, preserva l’innovazione e potenzialmente porta nuovi fenomeni.
Per gli abbonati, ogni cancellazione è un fulmine a ciel sereno, visto che, a differenza di quanto accade con la tv tradizionale, non ci sono dati d’ascolto pubblici a motivare e a far presagire la drastica decisione. Netflix vittima di se stesso? Forse sì se pensiamo che il malcontento dei sottoscrittori abituali è acuito anche da un brand costruito in maniera ineccepibile. L’equazione “differente uguale meglio” funziona solo nell’iperuranio pubblicitario.
L’impressione è che vada trovato ancora un equilibrio: le strategie di grandezza basate sull’accumulare sottoscrittori, titoli (e debiti) col tempo potrebbero risultare poco sostenibili e bulimiche. Ogni tanto prender fiato lungo la corsa non è sinonimo di debolezza.