Che alla casa di Cinecittà ormai da tempo non si potesse più accoppiare l’appartenenza al genere reality lo avevamo scritto più volte, soprattutto a proposito di questa edizione del Grande Fratello, piegatosi alla logica della soap, stavolta come mai. Interesse per il gioco e per le eliminazioni marginale quasi fino alla fine, zero avventura e azione, parole e passioni presunte e amplificate all’inverosimile. Puntate quasi monotematiche, cast di medio livello ottimamente plasmato. Temi sociali praticamente assenti, probabilmente protagonisti solo nella quasi certa vittoria di Ferdinando, il coniglio dal cilindro che può creare l’ennesimo alibi d’oro al programma.
La ‘certificazione’ alle nostre riserve sulla possibilità di definirlo ancora come esempio di reality tv arriva proprio da Alfonso Signorini che, con l’autorevolezza di chi è coinvolto in prima persona, in una significativa intervista a Il Giornale, non ha espresso mezzi termini per fotografare la nuova realtà del Gf: “Certo che il Grande Fratello si tratta di una finzione, ma non fa nulla: nessuno crede che ci si possa innamorare di una persona e dopo due settimane di un’altra. L’importante per gli spettatori è la funzione catartica: basta crederci per quelle tre ore di svago.”
Analisi lucidissima, ragionamento che non fa una grinza. Saremmo totalmente concordi con il giudice monocratico del Gf nell’individuarvi quasi una forma postmoderna di tragedia greca se non ci assillasse il dubbio che non proprio tutti gli telespettatori siano riusciti a fare questo scarto critico. E con questo non vogliamo dire che davanti alla tv ci siano solo degli allocchi, ma basta vedere gli attacchi ai nostri post precedenti in cui ridimensionavamo le emozioni della casa per rendersi conto che il meccanismo di fruizione della televisione è maledettemante più complesso.
A dominare dunque questa serie infinita di puntate ci sarebbe lo stesso meccanismo che regge la fidelizzazione del pubblico alle telenovelas, quella medesima percezione di evoluzione interiore dei personaggi alla base delle sceneggiature della fiction seriale. Davide Baroncini che da sciupafemmine presuntuoso si trasforma in redento innamorato, Margherita Zanatta, tradita in amore e in amicizia che si lecca le ferite con un uomo integerrimo, a sua volta bastonato. Quasi come un happy end ex machina.
Il paradosso del gioco si rivela proprio nella condanna a Jimmy Barba, aspramente criticato per aver interpretato solo la parte più scanzonata di quello che in gioco rimane comunque, senza lasciarsi mai travolgere dal vento di passioni. E se ci troviamo a difendere la normalità di un personaggio come Jimmy che nella vita professa il culto del clownesco e della gag è facile rendersi conto di quanto si sia alterato il concept del format.
Resta da capire quanto gradiranno questa riflessione ai piani alti. Sarà contento Massimo Donelli che ha lanciato la dodicesima edizione parlando di vitalità inalterata per il genere reality (cosa vera nel resto del mondo considerato il ritorno del Big Brother, che vi documenteremo presto, in molti paesi dopo anni di pausa), smontato nel suo presupposto fondamentale e dall’interno proprio da colui che viene considerato l’oracolo del programma?
1. Charlie ha scritto:
18 aprile 2011 alle 18:24